LA LINEA D’ACQUA
Quattro domande a Sara Palmieri e Fiorenza Pinna
A cura di Angelica Rivetti
Angelica Rivetti: Sara, all’interno del tuo lavoro è evidente la centralità dello spazio (oltre che del tempo), in particolare in La linea d’acqua lo spazio può essere inteso come luogo fisico da abitare legato a un passato emotivo e famigliare; ma spazio è inteso anche come luogo espositivo, in relazione alle dinamiche di una sorta di geografia interna della galleria. Qual è il tuo rapporto con queste due accezioni del concetto di spazio e in particolar modo che ruolo ha assunto lo spazio in questo progetto in relazione anche a come è stato concepito nelle sale di Fonderia insieme a Fiorenza?
Sara Palmieri: In generale il mio lavoro attraverso la fotografia tenta di tradurre spazi emotivi in spazi visibili. La fotografia rimane la prima ma anche l’ultima scelta da cui parto e a cui arrivo ritraducendo questa operazione di lavoro attraverso lo spazio visibile per ritrovarci lo spazio non visibile. E rimane la fotografia perché questa è l’immagine del reale riconoscibile a tutti, a me per prima. In questo lavoro le forme in cui traduco lo spazio possibile di esperienza, di memoria, di trauma di paesaggio, sono spesso non definite, sono degli archetipi e talvolta dei simboli. Questo perché il fattore tempo all’interno dello spazio, in questo specifico caso, parlando di memoria e di storia non può più assumere una forma riconoscibile, sono forme distorte dal ricordo di chi magari partecipa alla ricostruzione del racconto. Questo lavoro infatti nasce dalla traduzione di un linguaggio di qualcuno che riporta un fatto che ha vissuto, oltre che la traduzione di uno stato interiore soggetto allo stato di perdita, allo stato di dissoluzione e per questo motivo le forme che ne escono sono frammentate, non definite, ripetute. A proposito dello spazio e della galleria, ecco qui il processo diventa completo perché nella mostra le immagini trovano un’allocazione in cui diventano parte dell’esperienza di uno spazio fisico ed emotivo. Ogni immagine ha una collocazione pensata in base a quello spazio specifico, e così la mostra può avvenire come esperienza. Ecco perché il bisogno di tradurre anche in quello spazio dei significati delle operazioni che possono riportare a dei simboli. Certamente il risultato finale della mostra, che continua a restituire cose nuove, è frutto del lavoro con Fiore, con la quale siamo arrivate a una proposta di dialogo che si apre nella galleria. Ogni volta che si creano relazioni tra immagini e uno spazio fisico in cui ci si può muovere, si offre la possibilità di continuare quel dialogo e di espandere quello stesso spazio. Ma non finisce lì, la mostra non è un’affermazione o una cornice, le persone che si muovono e che pronunciano delle parole in quello spazio, aprono altri mondi, nuovi ed espansi. Tutte le operazioni fatte qui sono simboliche ma anche molto concrete: l’idea di tagliare lo spazio, fratturandolo e ostacolando il passaggio con un muro che potesse supportare quell’immagine così grande e presente quale è il “buco nero” (Matrice#0); la stanza totalmente grigia per attuare un silenziamento; il sotto e il sopra della galleria che sono diventati due spazi simbolici del prima e del dopo; i pavimenti da cui emergono quelle immagini d’archivio che restano ad un livello orizzontale; la sala del sonoro sottostante che convive con un sopra in cui avviene tutta una traduzione di quel linguaggio tramandato…
Fiorenza Pinna: Sì, direi che Il movimento del nostro lavoro insieme è stato molto simile al flusso del fiume. Eravamo convinte fin dall’inizio che dovesse esserci questa parete a spezzare lo spazio della galleria, una convinzione così forte che ci portava quasi a dubitare, a chiederci il perché di questa forte necessità comune. Infatti l’abbiamo discussa, sottoposta a prova, pensata in relazione a delle alternative, per capire che senso avesse, ma già in quel momento è stato il lavoro stesso a comandare molte scelte, a richiedere naturalmente determinate cose, come un flusso. Durante il processo abbiamo ragionato molto con il corpo, con l’esperienza fisica, ci siamo rese conto che molte immagini richiedevano spontaneamente un rapporto fisico di un certo tipo con lo spazio. Ci siamo chieste principalmente come un’immagine, dopo che è stata interpretata e tradotta, potesse tornare nel mondo, quale potesse essere il suo migliore modo, la sua miglior forma di esistere per essere quello che è. Ecco, questa è stata una delle domande che ha mosso molte delle nostre scelte come ad esempio il formato, la tecnica di stampa, con la convinzione che l’immagine fotografica bidimensionale possa portare nello spazio la costruzione un’esperienza scultorea o sonora. Abbiamo lavorato nella dimensione del fiume, fatta di correnti molto forti e impetuose e di un flusso naturale che ci ha portate verso un lavoro continuo quasi senza sosta. La fiducia è stato un elemento fondamentale per tutto il lavoro insieme supportando le intuizioni con un concetto, prima tra me e Sara e poi tra noi e il team di Fonderia.
S.P.: Sì quello che ha davvero funzionato, come dice Fiore, è stato proprio questo “dare al lavoro” senza doverselo dire, dando ad esso una priorità totale che ha preso forza e ci ha guidato e condotto verso determinate soluzioni. Per me è stato molto importante quanto Fiore mi abbia costretta a confrontarmi con la fisicità dell’immagine e questo di conseguenza mi ha portato a pormi delle domande importanti sulle mie immagini che da fotografie diventano corpo, attuando così un processo che restituisce anche un’onestà maggiore a quello che si vuole dire e al lavoro che si vuole restituire. È stato un passaggio complesso ma necessario e fondamentale per ottenere una mostra che funzionasse e per ottenere soprattutto una crescita nel mio lavoro che va oltre alla mostra in sé.
A.R.: Il grigio prevale spesso in questo lavoro come elemento cromatico in grado di raccontare una sorta di tempo sospeso. Forse è un colore in grado, più di altri, di descrivere meglio quella dimensione fisica e al contempo metafisica, materiale e concettuale che emerge dalle immagini. Potete dirci di più sul rapporto tra la narrazione che si vuole portare in mostra e le scelte cromatiche, in parte anche legate alla tua volontà, Sara, di lavorare esclusivamente in analogico?
S.P.: Il grigio si estrae da tutte le immagini e ad esso abbiamo poi dedicato un intero momento (ovvero la stanza più piccola al piano superiore), individuando in quel momento di grigio alcune traduzioni di parole, di sensazioni, di stati fisici ed emotivi come il passaggio, l’attesa, il silenzio, l’impossibilità di definire. Infatti per me è stato molto complesso pensare e riflettere sulla parola “colore” perché per me il grigio in questa accezione metafisica all’interno della mostra, è sintomo di assenza, di trasformazione, di qualcosa che non ha un’identità definita e definitiva, è passaggio, trasmutazione da uno stato all’altro che può essere dal passato al presente, dal visibile al non visibile. Il grigio è sicuramente un passaggio tra lo stato di bianco e lo stato di nero. Se pensiamo all’immagine del “buco nero” (che chiamiamo così, ma che in un altro momento possiamo definirlo con altre parole, ognuno poi gli da quelle parole che l’immagine non ha), ecco lì troviamo un’esplosione di bianco e nero ma anche lì esiste il grigio e da lì dentro si estrae fino ad abitare in un’intera stanza. Nel processo di lavoro si è verificato questo grigio, non l’ho deciso né cercato nemmeno nelle immagini d’archivio, perché è stato il processo di lavorazione con l’acqua del fiume a definire il tono che hanno preso. Il fatto che facessi realmente fatica a tradurre quel racconto, quel paesaggio, quelle parole da cui volevo estrarre la caducità, il trauma, mi ha portato ad un processo di occultazione della visibilità attraverso la necessità di porre davanti a me un filtro (mi viene in mente la nebbia che è un filtro naturale caratteristico di questo paesaggio, di territori da sempre definiti intrinsecamente metafisici). Ho tentato così di portare le affermazioni, la storia, i racconti di quel territorio, all’esterno per rispecchiare ancora di più la traduzione di un evento passato per arrivare ad affermare delle cose che non sono esperienza diretta ma provengono dal racconto di altri e, per fare questo, ho dovuto compiere un mio processo e per farlo era necessario passare dal grigio. Un appoggio visivo del processo del grigio all’interno della mostra è certamente la piccola stanza al piano superiore, in cui il grigio diventa totalità.
F.P.: Sì, secondo me è molto importante anche come una persona fa esperienza della mostra. Il grigio è ovunque ma funziona in alcuni momenti più forte che in altri. All’inizio del percorso infatti funziona più il nero rispetto al grigio, nelle lune c’è il grigio ma ci si arriva dopo. Nella prima parte della sala prevale con potenza il nero anche se il grigio è già presente ma è il nero che si fa leggere con più forza visiva…
S.P.: Certo, all’inizio della mostra si deve necessariamente entrare nel nero (con Matrice#0, la piccola immagine di Argine#3 e la serie delle Matrici#2 – #6) per ritrovare poi degli spazi di attesa e di osservazione. In tutto questo è ovviamente centrale la funzione della parete al centro della sala che taglia e da allo stesso tempo delle linee direzionali allo spazio e al percorso a livello cromatico e quindi a livello emotivo e fisico. Ci sono certamente delle direzioni indicate dalle immagini e dalla loro collocazione nella mostra. Per questo, se vogliamo, la stanzetta al piano superiore è un momento di interruzione della narrazione, una pausa necessaria, un momento di grigio totalizzante in cui quel colore assume una sua fisicità strutturale, oltre che emotiva.
A.R.: Sara, La linea d’acqua prende avvio da un fatto storico, reale, di cronaca che passa poi attraverso il tuo processo artistico, portando la narrazione su un piano più immateriale, astratto e concettuale. Per fare questo però ti sei servita di differenti linguaggi e dispositivi: fotografia, immagini d’archivio, installazioni che includono l’audio e il video, l’acqua, l’articolazione dello spazio, tutti elementi che permettono allo spettatore un’immersione totalizzante nel racconto. Quel è il tuo rapporto con materiali eterogenei all’interno del tuo processo creativo? Pensi che la sola fotografia possa raccontare pienamente una storia o credi che ponga dei limiti e per proseguire la narrazione ci si debba rivolgerti ad altre forme espressive?
S.P.: Credo che utilizzare la fotografia in questi termini sia un atto di fiducia come lo è anche quella di dare al fiume “valore di individuo”. Io do spesso più fiducia alla materia che alla traduzione che se ne fa, anche la fotografia è una materia (non è il risultato bidimensionale di una cosa osservata), è un processo e necessariamente doveva essere un processo analogico proprio perché il processo stesso della fotografia è il primo passo per portare alla luce, rendere visibile qualcosa. Ma allo stesso tempo lo fa senza mai definire perché la fotografia afferra un momento e per questo è necessario portare dentro anche gli altri elementi a cui si da fiducia perché hanno una loro memoria anche storica degli eventi. Quando ho iniziato questo lavoro ho sentito la necessità di lasciar andare cose in cui credevo perché pensavo fosse l’unico modo per affermare qualcosa di vero, onesto e nuovo per partire dentro un viaggio di elaborazione e di affidamento e per farlo ho pensato fosse necessario attivare tutti i sensi (più di prima, più di lavori precedenti) e quindi ci doveva essere la partecipazione dell’acqua, l’elemento sonoro, un sapore, un odore a cui le immagini rimandano nella loro matericità e quindi la fotografia diventa testimonianza di molti atti, processi, tentativi, non è un istante, è molto più ampio. Anche i vetri, ad esempio, sono un materiale molto importante nell’istallazione, sono necessari per creare un’ulteriore tipo di relazione. Qui il vetro è il filtro, è l’acqua, è la liquidità, è anche lo spostamento della visione nel momento in cui i riflessi portano a differenti modi di vedere quell’immagine.
F.P.: Mentre vi ascoltavo mi chiedevo, Sara quel è stata la cosa più difficile che hai lasciato in questo lavoro?
S.P.: Beh, penso che la cosa più difficile sia stata il pensare di voler affermare qualcosa ma di non poterlo fare perché non avevo le forme e i pazzi per farlo e quindi ho dovuto prendere consapevolezza che una forma informe, impossibile, non traducibile in qualcosa di reale potesse essere l’affermazione di un luogo, di uno stato. Questa forse è stata la cosa più difficile: accettare che una forma assurda, sia una forma in cui è possibile vivere.
A.R.: Un elemento interessante all’interno de La linea d’acqua è l’idea di proporre ripetizioni di immagini simili ma mai identiche (attraverso la forma allestitiva del trittico, del dittico) e di errori fotografici. Come ti relazioni con la possibilità, che è forse anche una necessità, di fallire all’interno di un processo artistico? E come avete ragionato insieme su alcune scelte rispetto al ruolo che assumono le immagini fallace e quelle ripetute ai fini di questa narrazione?
S.P.: Credo che su questo aspetto sia interessante sentire prima la riflessione di Fiore, perché è stata lei a condurmi verso questa importanza del formato rispetto a ciò che si vuole dire e dove collocarlo poi nello spazio. Ad esempio la scelta di porre le “matrici/errori” all’inizio del percorso (nella parete frontale rispetto all’ingresso) e in un formato più piccolo, privo di cornici con il solo filtro di vetro, è stata Fiore a indirizzarmi lì, facendomi scoprire come le frammentazioni di errori siano forme del reale più possibili. A me ha molto colpito ad esempio quando un visitatore in mostra mi ha fatto notare come quei cinque errori fossero una buona rappresentazione di me, una sorta di autoritratto. Beh, questo mi ha portato a riflettere sull’idea della frammentazione come rappresentazione di un singolo individuo fatto di più sfaccettature…
F.P.: Penso che una chiave importante sia stata quella di considerare l’intera mostra l’opera finale, di pensare l’opera come un’entità, un corpo. Quindi noi ci siamo immaginate la galleria come un insieme di organi e questo ci ha permesso di capire dove e come porre le immagini nello spazio. La cosa più difficile che si affronta in questo lavoro è quella che sta a destra dell’entrata ovvero il “buco nero” (Matrice#0) che diventa un sistema di spaesamento voluto. In mostra infatti tutte le linee di direzioni normali dello sguardo non si trovano perché c’è un evento traumatico che le ha rotte tutte quindi se si vuole continuare a vivere si deve accettare l’esistenza di un’altra dimensione e si deve vedere cosa di quella dimensione funziona. Abbiamo lavorato su formati vuoti, cioè su formati che funzionassero in rapporto con il corpo e per questo le proporzioni delle matrici/errori corrispondono a quelle della testa, del viso dello spettatore. Durante l’istallazione, poi, ci siamo rese conto che la mostra potesse funzionare meglio abbassando tutto l’orizzonte così che le opere fossero poste in proporzione con il busto, con la parte centrale del corpo dello spettatore, creando così un nuovo orizzonte che coinvolgesse di più testa e busto, parti del corpo più legate al fare oltre che al linguaggio. Con Sara abbiamo lavorato bene proprio per questa nostra comune ossessione per lo spazio e per il linguaggio…forse lo spazio è il linguaggio. Probabilmente la fotografia è la cosa che instaura il rapporto più strano con lo spazio, perché proprio nella sua presunta trasparenza in realtà si cela l’ambiguità. Penso che la risposta stia un po’ in questo continuo rapporto di pieni e vuoti: da una parte ci sono le opere che richiedendo un certo formato nel rapporto con il corpo e con lo spazio e dall’altra c’è lo spazio che ha richiesto dei formati in rapporto a sé stesso in quanto organismo. Per noi la galleria è sempre stata intesa come un corpo appunto. Quello che succede nello spazio, è dato dal fatto che le forme, gli organi che compongono la galleria erano perfetti per la costruzione di questa narrazione.
S.P.: Sì, assolutamente. Credo che la rispondenza anche di parte del pubblico metta in luce come spesso la forma non comprensibile dell’arte e della fotografia che propone delle forme non intellegibili porti a un’ambiguità. Credo che c’entri molto il tempo in questo discorso, il ripetersi delle forme avviene ma non per trovarne l’espressione migliore. La presenza del dittico e del trittico è necessaria perché esiste il bisogno, attraverso la fotografia, di dividere il tempo, di dare quell’idea che la fotografia sia il tentativo di fermare un momento ma con la consapevolezza che l’istante appena successivo sarà diverso, ed è proprio lì che si crea la dissoluzione di quell’attimo e il tentativo di afferrarlo avviene sempre in un modo non definito, fallace talvolta. Molte persone che hanno vissuto quel trauma (l’alluvione del Polesine a cui al contempo si fa riferimento a ci si allontana, è importante e al contempo per nulla importante) l’hanno percepito come qualcosa di molto democratico perché hanno sentito che in quelle forme di errore era possibile infilarcisi dentro, che la propria fallibilità lì dentro ci potesse stare bene, anche nell’onesta che qui ha la fotografia di poter essere un’immagine che per prima porta in sé la possibilità dell’errore (è stata stata una pellicola rotta, è passata dall’acqua del fiume…). Quindi anche la fotografia è fallibile e anche chi pensava di dover interpretare quelle immagini con un altro tipo di linguaggio ha capito che quel linguaggio che cercavano era già contenuto lì dentro, l’ha sentito e per me è stata la restituzione più importante. Quando ci si accorge che il nuovo linguaggio che si utilizza per la traduzione di un evento e di uno stato può essere quella parola che manca a qualcuno, allora ci si rende conto che quell’ambiguità ha dato vita a una forma possibile, che non ha tradito, anzi ha realizzato, ha reso possibile. E ciò può accadere proprio nell’opera intesa come mostra nella quale il trauma a partire dall’evento storico si slega quasi immediatamente per diventare trauma collettivo, universale.