Sette abiti di carta costruiti sul mio corpo, cuciti addosso e modellati dal mio stesso abitarli.

Ognuno di essi è stato indossato per un intervallo di tempo preciso, secondo una successione, quella di Fibonacci, che rappresenta per alcuni molluschi una regola innata, uno schema mediante il quale essi fabbricano il loro guscio.

Questa costruzione rappresenta la forma dello spazio vitale entro il quale l’animale stesso circoscrive il proprio corpo, il limite tra lui e il mondo.

L’essenza del guscio è quindi evocata in quella dell’abito: esso non è un oggetto da indossare bensì una corazza da vestire, che contemporaneamente separa il contenuto dall’ambiente che lo circonda e registra su di sé l’azione che si svolge al suo interno. È una seconda pelle sulla quale l’uomo imprime il suo “stare nel mondo”.

Ogni piega, ogni alone, ogni strappo parlano di movimento, di sosta e di attesa.

Essi non sono più oggetti: la carta diventa ora un materiale performativo, una dichiarazione che parla di azione. L’“abito” diventa “abitazione”: su di esso si riconosce uno “stare”, una storia di gesti e di permanenze.

L’ultima parola è data dall’involucro vuoto, che come il giaciglio abbandonato di una crisalide, è immagine tridimensionale di un’esistenza: un’impronta sul ciglio della strada che riconduce la mente non solo all’identità del suo proprietario ma anche a un percorso, a una mappa della sua permanenza nel mondo.

Questa presenza, accompagnata dalla visione dell’azione stessa, ridotta a solo movimento interiore e svelata in tutta la sua apparente staticità, dichiara infine la volontà di dar voce a una pelle svuotata, muta che reca su di sé le tracce di un passato ancora in via di svolgimento.