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Origo.

mostra collettiva di
Ana Blagojevic
Elena Grigoli
Nicolò Lucchi
Silvia Sirpresi

 

dal 30 Giugno al 29 Luglio 2017

 

a cura di Valeria Marchi

Origo è il punto di avvio di un progetto sul linguaggio della fotografia contemporanea, dove sono in dialogo e in opposizione diversi approcci all’immagine.
Quattro giovani fotografi sono stati invitati a ragionare sul tema, vastissimo, dell’origine, in una residenza negli spazi di Fonderia 20.9 e che dà ora luogo a una mostra.
Il termine “origine” rimanda al “costituirsi iniziale di un fatto”, alla nascita, all’inizio di qualcosa, all’idea di provenienza, alla ricerca di un luogo da cui si è partiti e al modo o al processo di formazione del fenomeno fotografico.
Indagare l’origine ha portato gli artisti a lavorare sul sè, sul corpo, sui segni primordiali che la nascita ha inciso sulla pelle. Ha significato anche ricostruire le proprie radici e sperimentare, come in un gioco infantile, i principi stessi della creazione nella fotografia. Origo è un punto di partenza.

In quest’ottica di ricerca sull’inizio, il lavoro di Nicolò Lucchi è un progetto che nasce da uno spirito ludico, in cui il fotografo studia alcune possibili modalità di creazione dell’immagine fotografica, nel rapporto tra scultura e fotografia o, per dirla in altri termini, tra tridimensionalità e bidimensionalità. La parete allestita da Nicolò, che combina carta da parati, fotografia e oggetto scultoreo, sembra dirci che ogni fotografo, come ogni bambino, è un creatore di forme con cui si diverte a giocare all’infinito. Il punto di partenza di questo lavoro è l’assemblaggio di materiali diversi, spesso legati al mondo dell’infanzia e, in qualche misura, al bricolage, come le matite, il nastro adesivo, la gomma. Dalla costruzione di sculture dall’apparenza precaria e di oggetti informi, colorati, senza funzione, se non quella del gioco, si passa alla trasformazione digitale: l’oggetto, una volta fotografato, viene clonato, moltiplicato, girato e rigirato nello spazio dell’inquadratura, diventando una scultura “fotografica”. Nicolò varia i punti di vista da cui gli oggetti sono osservati, modifica gli sfondi, gioca con la spazialità e li pone in ambienti astratti, senza prospettiva; trasferisce la scultura dalla realtà, alla cornice, alla parete, per poi tornare ancora una volta alla realtà. Le tre fotografie in mostra indicano il percorso: se la prima allude ad un’idea di fusione della forma nello spazio tramite la luce, nella seconda c’è una base su cui la figura poggia, un ancoraggio alla solidità della materia, nella terza, infine, la decostruzione è compiuta e l’oggetto è diventato una texture. Una texture che può ripetersi continuamente nello spazio. Una texture che dà forma ad un nuovo oggetto: un cono, una sorta di giocattolo, che nelle mani del fotografo origina le forme.

Il lavoro di Silvia Sirpresi parte dal corpo ma si sviluppa in una ricerca di astrazione, che dalla superficie-pelle arriva alla superficie-supporto. La fotografa gioca proprio sull’ambivalenza di questi due termini: se la pelle può essere un supporto per la stratificazione dei segni che volontariamente l’uomo vi incide sopra, per Silvia la pelle è soprattutto il luogo in cui si manifesta il segno primordiale per eccellenza, quella semplice forma che testimonia la nascita di ogni essere umano. L’allestimento a parete del progetto, che va a formare un disegno collettivo di segni, richiama solo in parte la catalogazione scientifica; è invece, piuttosto, un’allusione ad un alfabeto primordiale e un gioco di ripetizioni e cambiamenti morfologici, un codice che è studiato nella sua valenza grafica ed estetica, più che linguistica, simbolica o narrativa. I segni che fotografa Silvia possono somigliare a dei petroglifi: così come la stessa tipologia di oggetti o figure è rappresentata da forme simili nelle incisioni rupestri primitive, anche queste forme lievi e minimali sono una variazione continua sullo stesso tema. Sono dei segni incisi che alludono al centro del corpo umano, alla cicatrice che ci portiamo dietro dalla nascita e che è differente per ciascuno. La sovraesposizione delle immagini e il lavoro con il bianco e nero molto definiti portano gli scatti in un tempo e in uno spazio irreali, che non raccontano il vissuto della persona ritratta ma che rimandano idealmente all’origine della vita.

Il lavoro di Elena Grigoli si può leggere alla luce di una domanda fondamentale che il critico e curatore Luigi Meneghelli, in occasione di una mostra di alcuni anni fa sul corpo come luogo dell’arte contemporanea, acutamente sottopone al lettore:  “È possibile che un’epidermide marcata da passaggi, flussi, violazioni di una vita intera sia investita da un ulteriore gesto di inclusione visiva, capace di rimodellare la nozione stessa di identità? Ma soprattutto cosa comporta riscrivere la geografia del corpo individuale, quali effetti ha investirlo di altre tracce, di altre storie?”1 Quando la fotografa ritrae una porzione di se stessa e gratta via alcune parti dalla superficie, ci fa intendere come il corpo umano sia una mappa dell’esistenza di ognuno su cui si accumulano i segni del passaggio temporale, spaziale ed esistenziale. I luoghi, le strade, gli spazi che si attraversano o che si abitano, possono letteralmente plasmare il sè. Il gesto di togliere, di scarnificare la propria pelle ha una matrice tribale ma viene operato da Elena con grazia e delicatezza, senza apparente violenza o dramma: può far pensare ad un rituale, a un marchio di provenienza o a un processo di cancellazione, ad un annullamento. Si perde un pezzo di sè per rivelarne altri, per far apparire ciò che sta sotto, per giungere ad un’idea di essenzialità, che nella lenta e ripetuta cancellatura l’artista cerca di raggiungere. La matrice concettuale da cui gli scatti nascono è profondamente debitrice dell’Arte Povera e, soprattutto, del lavoro di Giuseppe Penone: dal rapporto simbiotico di Penone con la natura, al suo “svolgere la propria pelle” come mappatura fotografica del corpo, ai lavori in cui l’artista assimila le venature del marmo alle venature dell’uomo e racconta la superficie del monte come pelle (Pelle del monte, 2012, marmo di Carrara) o, ancora, quando l’artista imprime le tracce della propria pelle nell’argilla, nelle opere Avvolgere la terra, 2014, terracotta e bronzo.